Caro direttore,
Tullio Gregory sollecita un dibattito sulla laicità. Accusa la maggioranza di essere prona alle indicazioni della Curia e la sinistra di essere ambigua a causa delle sue divisioni interne. Si può non convenire sulle proposte che il centrodestra ha sostenuto — a partire dall'agenda biopolitica — per ancorare la laicità alla nostra tradizione nazionale, ma non derubricarle acriticamente a “proposte clericali”. A meno di non ritenere il tema della laicità immutabile nelle sue connotazioni ottocentesche.
A ben vedere, già gli ultimi decenni del Novecento hanno evidenziato, con il prepotente ritorno della religione nella sfera pubblica, il fallimento del sogno secolarista di ricondurre la fede nel ghetto della coscienza individuale. A volte quel risveglio ci ha fatto piacere, come nei cantieri di Danzica e nella mobilitazione operaia contro il comunismo; altre volte ci ha inquietato, come a Teheran, dove la rivoluzione si è tramutata in incubo totalitario. Entrambi i casi, però, hanno indicato che la religione non può essere ignorata dalle forze politiche che vogliono orientare il futuro delle società.
Di fronte a questa evidenza vi sono state due reazioni. C'è chi ha laicamente accettato di confrontarsi con la storia e ha riposto al centro il problema della propria identità. La libertà, infatti, è cosa vaga ed effimera senza l'appartenenza. E solo se si accetta di appartenere a una tradizione, a una famiglia, a una comunità si ha la forza per aprirsi senza timore al nuovo: per intraprendere quel dialogo che integra quanti giungono da noi provenienti da altri mondi e portatori di diverse culture; per collocare la modernizzazione tecnica e scientifica in quell'alveo di valori che la esaltano perché la pongono in comunicazione con la ricchezza della persona e delle sue relazioni comunitarie. Se, di contro, si ritiene che la libertà possa fondarsi solo su diritti positivi in grado di generare sempre nuovi diritti, nell'illusione di liberare l'individuo da ogni vincolo, si finisce per cadere in un relativismo per il quale tutto si equivale e anche la politica si riduce a mera gestione del potere.
Da laici, ci siamo faticosamente messi in marcia lungo il primo cammino nel momento in cui abbiamo dovuto affrontare la transizione epocale dai vecchi ai nuovi parametri di uno sviluppo non più solo economico ma più compiutamente umano. E abbiamo compreso, ad esempio, che la funzione pubblica della scuola si realizza più efficacemente attraverso una sana concorrenza tra istituti statali e privati esaltando la libertà di educazione che appartiene certamente ai “maestri” ma anche, e forse prima, ai genitori. Abbiamo compreso che il progresso della tecnica senza un adeguato progresso della conoscenza conduce verso lo scientismo per il quale i risultati raggiunti non possono essere messi in discussione, tradendo così uno dei fondamenti della vera scienza (se così non fosse, Gregory sarebbe più accorto a riferire delle ricerche sulle cellule staminali). Abbiamo compreso, infine, che la sacrosanta libertà di cura non può produrre un determinismo antropologico fondato sull'illusione che l'uomo possa governare la propria vita in ogni istante, anche a costo di degradare il medico a funzionario pubblico e lo Stato a dispensatore di suicidi assistiti a richiesta. Tutto ciò non per ragioni di fede, ma perché convinti che se si nega il fatto che il futuro è sempre aperto, si finisce per ricadere nell'incubo totalitario.
Per noi il riconoscimento laico del valore della vita è il necessario presupposto per quel vitalismo economico e sociale che solo può sottrarre al declino le società di vecchio benessere. Se lo iniziano a comprendere anche in Francia, dove il laicismo fondato sulla rigida separazione tra Stato e Chiesa sta cedendo il passo a una più pragmatica divisione di compiti, perché noi, nell'Italia in cui Croce disse “non possiamo non dirci cristiani”, dovremmo rinnegare proprio oggi le nostre radici popolari?
(Tratto da Corriere della Sera)
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