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sabato 13 agosto 2011

Taglio dei trasferimenti agli enti locali. Linee guida per un welfare sostenibile.

Questo studio della Banca d' Italia ci mostra la storia del colossale debito pubblico italiano, che diventa incontrollato già negli anni Settanta del secolo scorso.
Gli imminenti nuovi tagli dei trasferimenti agli enti locali, imposti dalla grave situazione economica e dal citato stock del nostro debito pubblico, costringeranno molte amministrazioni locali a rinnovare metodi e strutture del welfare. Secondo quali linee guida?
Una preziosa indicazione si può trarre da un recente articolo di Antonio Martino che scrive:

"Le amministrazioni pubbliche - governo centrale, amministrazioni locali, enti previdenziali, autorità autonome e quant'altro - sono in realtà un sistema di trasferimenti: si finanziano prelevando quattrini dalle tasche di alcuni italiani per trasferirli in quelle di altri italiani. Le dimensioni di questi trasferimenti sono aumentate enormemente nel corso del tempo: se posso ripetermi, nel 1900 rappresentavano il 10% del prodotto interno lordo, negli anni Cinquanta a circa il 30%, oggi superano il 51%. Cosa giustifica questa spaventosa crescita? Certamente non la lotta alla povertà: eravamo più poveri nel 1900 che non negli anni Cinquanta e più poveri nei Cinquanta che non adesso. Del resto, chi crede che le spese delle amministrazioni pubbliche abbiano davvero lo scopo di alleviare il disagio dei nostri concittadini meno fortunati? Se il 51% del reddito nazionale andasse al 20% più povero della popolazione, lo renderebbe immediatamente agiato. Le cose sono assai meno semplici, bisogna considerare altri elementi.

Primo: quanto la collettività riceve ammonta a molto meno di quanto la collettività deve versare all'apparato di trasferimenti pubblico, per via dei costi di trasferimento (burocrazia, politica, corruzione, eccetera). Secondo: chi paga non necessariamente appartiene alle fasce di reddito più alte, chi riceve non necessariamente a quelle più basse. Il finanziamento dell'università, della sanità, e degli enti locali molto spesso proviene dalle tasche di contribuenti a reddito medio-basso o basso, e va in quelle di persone non indigenti, e la redistribuzione diventa regressiva".

"L'indennità parlamentare mi colloca nell'uno per cento più ricco dei contribuenti (ineffabile efficienza del nostro sistema tributario!) eppure ricevo "gratis" i servizi e le medicine fornite dal sistema sanitario nazionale: tassiamo il 99% meno abbiente per dare all'uno per cento più ricco!"

Martino, con la sua abituale coraggiosa lucidità, mette in rilievo uno dei principali fattori di insostenibilità della spesa pubblica italiana: tendenzialmente si vuole dare tutto a tutti. La protezione pubblica, spesso inefficiente, copre anche chi non ne ha davvero bisogno e può da solo meglio provvedere alle proprie necessità, conservando parte del reddito che oggi trasferisce alla finanza pubblica.

Occorre dunque che la mano pubblica tuteli, in modo efficiente, chi non riesce a far da sè. Nulla di meno, nulla di più. Si tratta di collegare le prestazioni al reddito, riducendo l' ampiezza degli interventi della pubblica amministrazione e quindi la sua dimensione e l' entità della spesa pubblica.
L' ostacolo principale che trova questa auspicata rivoluzione del welfare italiano è rappresentato dalla tradizionale incapacità di far emergere i redditi reali, a cui si accompagna un' imponente evasione fiscale.
Gli enti locali sono i più vicini al cittadino. Sono perciò in grado di contribuire in modo decisivo anche all' accertamento della sua situazione reddituale. Siano i primi a sperimentare un nuovo modo di costruire assistenza e sanità pubblica, imperniato sul collegamento tra prestazione e reddito.

venerdì 1 luglio 2011

Finanza pubblica: lo scontro sui tagli.

In questo recente articolo su La Stampa  il professor Luca Ricolfi presenta un quadro realistico della finanza pubblica italiana, approfondendo in particolare il tema dei cosiddetti tagli alla spesa.

Scrive Ricolfi, "a proposito di tagli lineari e non":


"...le cose sono più complicate, molto più complicate, di come appaiono. E' ingenuo, per non dire demagogico, suggerire l'idea che oggi - giugno 2011 - la politica abbia di fronte a sé due vere alternative: tagli lineari e tagli selettivi.
L'opzione dei tagli non lineari, o selettivi, pavlovianamente invocata dall'opposizione e dai sindacati appena Tremonti fa «bau», semplicemente non esiste"

" un conto è sapere quanto si dovrebbe tagliare globalmente, un conto è sapere esattamente dove, in che modo, con che tempi. Uno studio di questo tipo richiede un'équipe di specialisti (di cui alcuni provenienti dal mondo della sanità) e almeno due anni di intenso lavoro.
Invece la politica ha sempre fretta, e 2-3 anni di lavoro le sembrano un'eternità. Eppure un paio di anni è il tempo minimo per preparare un dossier operativo serio, capace di individuare chirurgicamente gli sprechi e le soluzioni.
Vale per la sanità, così come per la scuola, l'università, la giustizia, le carceri, i trasporti, la burocrazia.
La sinistra spesso invoca con rimpianto la spending review, ossia il lavoro di revisione della spesa pubblica iniziato dal compianto ministro Padoa-Schioppa con la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp, o Commissione Muraro), ma troppo spesso si dimentica che persino quel meritorio lavoro era appena agli inizi, e non aveva ancora prodotto le centinaia di dossier operativi, di manuali di «istruzioni per l'uso», che sarebbero stati necessari se davvero si fosse voluto varare una politica di tagli selettivi.
Ora siamo più indietro di allora (perché questo governo ha soppresso la Commissione Muraro), ma siamo indietro persino se immaginiamo a un futuro governo, che si insedi fra un anno e mezzo al posto di quello attuale.
Se la sinistra intendesse davvero, una volta vinte le elezioni, procedere lei a tagliare gli sprechi in modo selettivo, avrebbe già creato decine e decine di gruppi di lavoro per individuare come, dove e quanto tagliare.
Ma immaginiamo invece che, per miracolo, i dossier siano già sul tavolo del governo. Che il governo sappia con precisione dove colpire. C'è la lista degli enti inutili da sopprimere e quella degli enti da rafforzare. 
C'è la lista dei ministeri da far dimagrire, e quella dei ministeri da rifinanziare. C'è la lista degli atenei da chiudere e quella degli atenei da potenziare. C'è la lista dei tribunali da accorpare.
C'è la lista degli ospedali inefficienti e pericolosi da chiudere. C'è la lista delle agevolazioni ed esenzioni da sopprimere. Ci sono stime accurate dei tassi di spreco di ogni regione, provincia, Comune, e un piano decennale che prevede progressive riduzioni dei trasferimenti per gli enti che dissipano denaro pubblico, ma anche progressivi aumenti delle dotazioni per gli enti virtuosi.
Ebbene, provate a immaginarvelo un governo serio e determinato, crosettianamente pronto a iniziare una politica di tagli selettivi (per inciso: la manovra che ci chiede l'Europa è di 40 miliardi in 3 anni, gli sprechi della pubblica amministrazione superano gli 80 miliardi) Che cosa credete che succederebbe?
Ogni categoria, ente, territorio colpito mobiliterebbe sindacati, associazioni di categoria, tribunali, televisioni, quotidiani per salvare se stesso, naturalmente invocando l'assoluta indispensabilità delle funzioni che esso svolge, naturalmente nell'esclusivo interesse della comunità.
Un coro generale si leverebbe contro il governo, l'indignazione popolare monterebbe, il lavoro dei tecnici sarebbe duramente contestato da altri tecnici, si sentirebbe di nuovo parlare di «macelleria sociale», «attacco al welfare» e alle conquiste dei lavoratori, eccetera eccetera.
E allora, se le cose stanno così, come possiamo stupirci che Tremonti pensi a semplici, modesti, tagli lineari, con l'aggiunta di una spruzzatina di demagogia anti-casta, tipo limatura dei compensi ai politici?
Tremonti, probabilmente, pensa a tagli lineari perché quella è la sua forma mentis. Ma il guaio è che, giunti a questo punto, con un Paese cui è stato raccontato che nella crisi l'Italia tutto sommato se l'è cavata bene, nessun governo sarebbe in grado di imporre le misure che servirebbero, anche se nel frattempo avesse elaborato un piano, fatto di dossier precisi, seri, dettagliati".


Dunque, scrive Ricolfi, "nessun governo sarebbe in grado di imporre le misure che servirebbero, anche se nel frattempo avesse elaborato un piano, fatto di dossier precisi, seri, dettagliati".
Naturalmente questa difficoltà di affrontare i problemi alla radice non è, come sembra sostenere il professor Ricolfi con un cedimento all' antiberlusconismo più fazioso, imputabile all' ottimismo del presidente del consiglio.                                                                                                                                                                                 
Bisogna invece sottolineare che corporazioni, privilegi, rendite di posizione, insufficiente concorrenza fanno ormai parte dell' assetto fondamentale della società italiana, così consolidato e tradizionale da risultare impermeabile e refrattario a ogni tentativo di riforma.
Si deve inoltre considerare che la scuola pubblica, venendo meno ad uno dei suoi principali doveri, non ha di solito formato cittadini consapevoli della struttura essenziale dello stato contemporaneo e della complessità dei problemi che possono affliggerlo.
Proprio sulla cultura diffusa di un paese debilitato e fuorviato da lunghi decenni di battaglie politico-ideologiche senza esclusione di colpi si deve tentare di intervenire, se si vuole uscire dallo stallo.
E' necessario far comprendere la complessità delle questioni e la necessità di decisioni rivolte al futuro ma anche ridare credibilità ad una rappresentanza politica ormai percepita come casta di privilegiati lontana dai problemi della gente.

domenica 12 giugno 2011

Perchè in Italia è difficile fare riforme importanti?

Il professor Ernesto Galli Della Loggia torna ad alti livelli con questo editoriale sul Corriere della Sera:


Scrive Della Loggia:

"Che cos'è che in Italia impedisce di «fare le riforme»? La risposta è semplicissima: la loro impopolarità. Ci troviamo ad essere strangolati da un paradosso micidiale: proprio perché sono così vitalmente necessarie, le «riforme» suscitano un'opposizione fortissima in grado di bloccarle. Enormemente più forte che in altri Paesi, questo è il punto. Ciò accade perché altrove, in genere, una riforma vuol dire un provvedimento impopolare sì, ma che non cambia le regole del gioco, non cambia il principio sul quale la società è costruita. Da noi invece no. Le riforme di cui noi abbiamo più bisogno, infatti, sono quelle che dovrebbero rompere proprio il meccanismo con cui funziona la nostra società, mutarne alla radice lo spirito e la mentalità. Quando in Italia si dice «riforme», bisogna esserne consapevoli, si dice in realtà «rivoluzione». E la più difficile tra le rivoluzioni: quella culturale".


"Qualunque sia il provvedimento a cui si pensi per modernizzare il Paese, per rimetterlo in carreggiata, ci si accorge subito, infatti, che esso va immancabilmente a colpire uno dei tre pilastri sui quali si regge gran parte della società italiana: il privilegio, il corporativismo, la demagogia". 
"In Italia qualunque individuo così come qualunque istituzione, qualunque impresa capitalistica non sopporta né il merito, né la concorrenza, né controlli indipendenti. Qualunque categoria, qualunque organismo non sogna altro che monopoli, numeri chiusi, carriere assicurate, condoni, esenzioni, ope legis, proroghe, trattamenti speciali, pensioni ad hoc, comunque condizioni di favore. E quasi sempre ottiene quanto desidera. Ricorrendo, come ho detto, all'arma vincente della demagogia. Specie a partire dagli anni Settanta, infatti, corporativismo e privilegi hanno progressivamente soffocato la società italiana costruendo (o avvalendosi di già pronte) costruzioni ideologiche menzognere, le quali avevano regolarmente al proprio centro i «diritti», la «democrazia», la «solidarietà»: parole d'ordine, discorsi, che agitando ogni volta la bandiera del bene e del giusto in realtà sono serviti unicamente a promuovere il più spietato particolarismo o a saccheggiare le casse pubbliche. Spessissimo a tutte e due le cose insieme".
"È contro questa autentica muraglia socio-culturale - la quale nella sua essenza non è né di destra né di sinistra, potendo essere indifferentemente entrambe le cose - che da decenni s'infrange, o meglio si spegne appena levatosi, qualsiasi vento riformatore italiano. L'imponenza di quella muraglia, infatti, ha l'effetto di porre in una condizione di eterna minoranza la dimensione del bene comune, dell'interesse collettivo, che in tal modo non riesce ad avere alcun peso politico determinante. È per questo che le riforme non si fanno, e in particolare non si possono fare proprio quelle che ci servirebbero di più".
"Il dispositivo corporativistico-demagogico-antimeritocratico è divenuto lo strumento grazie al quale da due decenni il cuore maggioritario della società italiana reale neutralizza la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza. Lo strumento grazie al quale essa neutralizza di fatto tanto la destra che la sinistra all'insegna della loro comune, certificata, impotenza; grazie al quale, infine, ne cancella i profili, ne vanifica identità e programmi. L'iperpoliticismo resta sì, dunque, come un carattere tipico della sfera pubblica italiana. Ma esso non è più il predominio del comando politico sulla società, com'è stato fino alla fine della prima Repubblica. Ora è piuttosto la penetrazione/subordinazione capillare e diffusa, l'uso continuo della politica da parte delle infinite articolazioni corporativo-antimeritocratiche della società. La quale realizza per questa via una sua antica vocazione: servirsi del potere, disprezzandolo".
Ernesto Galli Della Loggia


Si tratta di considerazioni amare ma lucidissime, anche se non interamente condivisibili. Resta a nostro parere esatto il rilievo fondamentale che emerge da esse: in Italia manca una cultura liberale diffusa e questo difetto blocca lo sviluppo delle tante potenzialità che la nostra società presenta. Le ragioni principali di ciò vanno trovate nella nostra storia recente. Nella egemonia culturale di una sinistra illiberale che, dopo la chiusura imposta dal fascismo, ha ostacolato con efficacia l' accesso dei nostri giovani al grande pensiero liberale classico e contemporaneo.

domenica 5 giugno 2011

Il Popolo della Libertà si rinnova per tornare a vincere. Le primarie.

Nel PdL si riflette sulla recente sconfitta elettorale e si lavora al rinnovamento del partito  per tornare alla vittoria. Il nuovo segretario Alfano, il ministro Frattini e il senatore Quagliariello propongono il ricorso al  sistema delle primarie, tradizionale nella democrazia liberale americana.
Scrive Quagliariello:


"Sarebbe un bel segnale se fosse proprio il PdL a promuovere una legge sulle primarie, prevedendo che esse siano aperte non solo ai tesserati ma anche alla partecipazione di cittadini che si siano preventivamente registrati in appositi albi, entro termini sufficienti a scongiurare il pericolo di inquinamenti o di risultati falsati".

Queste le riflessioni del ministro Frattini, tratte dal suo blog Diario Italiano:



CON LE NOMINE DALL' ALTO FINIAMO IN BASSO


RIFLESSIONE SULLE PRIMARIE.

La procedura della cooptazione va superata. Serve un bagno popolare che riavvicini il partito ai suoi iscritti e agli elettori 


Libero Quotidiano, 4 giugno 2011
di FRANCO FRATTINI 

PRIMARIE PERCHÉ? Perché nel momento in cui Berlusconi pensa al futuro della famiglia italiana del Ppe e a mettere mano ad un cambio di passo della nostra esperienza di governo e di partito, vi è solo un meccanismo che possa misurare il carisma dei suoi dirigenti e dei suoi rappresentanti nelle istituzioni: elezioni dirette, primarie. Vedremo poi quante varianti preveda questo meccanismo, meno semplice e semplicistico di quanto non si pensi, e tuttavia comunque virtuoso. Ma è indubbio che la procedura della cooptazione che ha fin qui prevalentemente ispirato le scelte di partito e la selezione del suo personale politico (talora anche contro l' indicazione di Berlusconi, come in qualche candidatura regionale, guai a dimenticarlo!) ha ora bisogno di quel bagno popolare che riavvicini il partito ai suoi iscritti ed agli elettori. 

PARTITO LEGGERO È un cambiamento che dobbiamo promuovere tutti insieme, in questi giorni di ritrovata unità attorno alla nuova figura del segretario politico, Angelino Alfano. Per rimediare agli errori che il vecchio sistema ha prodotto e che ora paghiamo elettoralmente, e per determinare finalmente il salto di qualità della nostra forma partito che da tempo molti di noi invocano. E che pure ha visto nel dinamismo delle aggregazioni che la affiancavano (i Club, i Circoli, le Fondazioni) momenti e occasioni originali e felici di una storia politica, la nostra, giovane e però radicata. Si tratta di sviluppare e completare la nostra stessa intuizione originaria di partito dalla struttura "leggera" e vicina agli elettori (proprio in risposta al tracollo dei partiti della prima repubblica ed alla professionalizzazione della politica). Una struttura orientata alla ricerca del consenso elettorale e capace quindi di trarre – proprio dagli appuntamenti delle primarie - uno stimolo ulteriore ed una ritrovata partecipazione nei simpatizzanti e negli elettori che sono stati in questi anni sempre meno protagonisti nel partito: nella scelta dei programmi, nelle poche iniziative delle sue strutture.

Bene le primarie, quindi, come strada maestra per rafforzare la democrazia interna del Pdl. Dobbiamo affrontare questa svolta e questa importante innovazione con una disciplina rigorosa che imponga regole chiare e condivise al meccanismo e permetta ai candidati scelti di assolvere alle loro funzioni nel modo più "pulito" e trasparente possibile. Parlare di primarie significa intanto guardare all' esperienza ed ai modelli della democrazia in America. Parlare di un regolamento delle primarie significa introdurre una riflessione all' interno del Pdl per sciogliere nodi e interrogativi che le molte e diverse esperienze americane hanno conosciuto a partire dai primi anni del '900.

Innanzitutto riguardo alla platea dei votanti: lasciare l' accesso libero a tutti (primarie aperte), o circoscrivere la partecipazione ai soli tesserati o a tutti i militanti del partito, comprendendo, quindi, tutti i club, i circoli ed i movimenti ad esso affiliati. Dovremmo anche decidere quale sarà l'età minima di riferimento dei votanti. Quanto all'identificazione ed al diritto di voto: dobbiamo lasciare che gli elettori si presentino semplicemente ai gazebo muniti di documento di riconoscimento e tessera elettorale, o - ispirandoci al sistema americano dove il fattore tempo è essenziale - dobbiamo richiedere all' elettore che si registri qualche mese prima delle primarie per ottenere successivamente il nulla osta al voto? Dobbiamo poi pensare a come entrare in una sempre miglior sintonia con il mondo dei giovani e dei loro lingua, le loro forme di aggregazione: prevedere quindi la possibilità di esprimere un voto online. Ancora si potrebbe prevedere che, nel registro elettorale, venga chiesto all' elettore di specificare se voglia registrarsi come affiliato al partito o come indipendente. E poi: c'è il nodo finanziamento per stabilire l' ammontare della quota simbolica da versare. Infine dobbiamo prevedere un organismo di controllo - interno o esterno al partito - che sovraintenda alle operazioni di voto e successivamente ne certifichi la correttezza, onde evitare di incappare in grottesche beffe, come quella dei quattro milioni di voti non verificati (primarie dell' Unione 2005) e quella ancor più recente delle "percentuali bulgare" alle primarie del Comune di Napoli (con il voto di simpatizzanti cinesi incredibilmente affannati a votare Pd). 

UN MOLTIPLICATORE Le primarie sono, in conclusione, un acceleratore del modello carismatico - che Berlusconi ha modellato con Forza Italia - ed un moltiplicatore anche e soprattutto locale della domanda di partecipazione. Creano una nuova sussidiarietà politica, e la costruzione delle loro regole è un primo impegnativo compito su cui misurarsi, capace di forgiare il partito di domani e di rendere nello stesso tempo un servizio alle istituzioni della politica di un' Italia moderna.


Franco Frattini

lunedì 16 maggio 2011

Laici senza rinunciare alla nostra identità.

Lettera al Corriere di Maurizio Sacconi e Gaetano Quagliariello sulla laicità. (Da l' Occidentale).




Caro direttore,
Tullio Gregory sollecita un dibattito sulla laicità. Accusa la maggioranza di essere prona alle indicazioni della Curia e la sinistra di essere ambigua a causa delle sue divisioni interne. Si può non convenire sulle proposte che il centrodestra ha sostenuto — a partire dall'agenda biopolitica — per ancorare la laicità alla nostra tradizione nazionale, ma non derubricarle acriticamente a “proposte clericali”. A meno di non ritenere il tema della laicità immutabile nelle sue connotazioni ottocentesche.
A ben vedere, già gli ultimi decenni del Novecento hanno evidenziato, con il prepotente ritorno della religione nella sfera pubblica, il fallimento del sogno secolarista di ricondurre la fede nel ghetto della coscienza individuale. A volte quel risveglio ci ha fatto piacere, come nei cantieri di Danzica e nella mobilitazione operaia contro il comunismo; altre volte ci ha inquietato, come a Teheran, dove la rivoluzione si è tramutata in incubo totalitario. Entrambi i casi, però, hanno indicato che la religione non può essere ignorata dalle forze politiche che vogliono orientare il futuro delle società.
Di fronte a questa evidenza vi sono state due reazioni. C'è chi ha laicamente accettato di confrontarsi con la storia e ha riposto al centro il problema della propria identità. La libertà, infatti, è cosa vaga ed effimera senza l'appartenenza. E solo se si accetta di appartenere a una tradizione, a una famiglia, a una comunità si ha la forza per aprirsi senza timore al nuovo: per intraprendere quel dialogo che integra quanti giungono da noi provenienti da altri mondi e portatori di diverse culture; per collocare la modernizzazione tecnica e scientifica in quell'alveo di valori che la esaltano perché la pongono in comunicazione con la ricchezza della persona e delle sue relazioni comunitarie. Se, di contro, si ritiene che la libertà possa fondarsi solo su diritti positivi in grado di generare sempre nuovi diritti, nell'illusione di liberare l'individuo da ogni vincolo, si finisce per cadere in un relativismo per il quale tutto si equivale e anche la politica si riduce a mera gestione del potere.
Da laici, ci siamo faticosamente messi in marcia lungo il primo cammino nel momento in cui abbiamo dovuto affrontare la transizione epocale dai vecchi ai nuovi parametri di uno sviluppo non più solo economico ma più compiutamente umano. E abbiamo compreso, ad esempio, che la funzione pubblica della scuola si realizza più efficacemente attraverso una sana concorrenza tra istituti statali e privati esaltando la libertà di educazione che appartiene certamente ai “maestri” ma anche, e forse prima, ai genitori. Abbiamo compreso che il progresso della tecnica senza un adeguato progresso della conoscenza conduce verso lo scientismo per il quale i risultati raggiunti non possono essere messi in discussione, tradendo così uno dei fondamenti della vera scienza (se così non fosse, Gregory sarebbe più accorto a riferire delle ricerche sulle cellule staminali). Abbiamo compreso, infine, che la sacrosanta libertà di cura non può produrre un determinismo antropologico fondato sull'illusione che l'uomo possa governare la propria vita in ogni istante, anche a costo di degradare il medico a funzionario pubblico e lo Stato a dispensatore di suicidi assistiti a richiesta. Tutto ciò non per ragioni di fede, ma perché convinti che se si nega il fatto che il futuro è sempre aperto, si finisce per ricadere nell'incubo totalitario.
Per noi il riconoscimento laico del valore della vita è il necessario presupposto per quel vitalismo economico e sociale che solo può sottrarre al declino le società di vecchio benessere. Se lo iniziano a comprendere anche in Francia, dove il laicismo fondato sulla rigida separazione tra Stato e Chiesa sta cedendo il passo a una più pragmatica divisione di compiti, perché noi, nell'Italia in cui Croce disse “non possiamo non dirci cristiani”, dovremmo rinnegare proprio oggi le nostre radici popolari?
(Tratto da Corriere della Sera)

lunedì 9 maggio 2011

Le radici del Popolo della Libertà: 18 aprile 1948.

Ora che il fumo della retorica è meno soffocante ricordiamo anche noi, con qualche giorno di ritardo, una data cruciale per l' Italia: il 18 aprile 1948.
In quelle elezioni la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e gli alleati centristi sconfissero duramente il Fronte del Popolo, che vedeva uniti comunisti e socialisti finanziati e diretti dall' Unione Sovietica.

"Nella primavera 1944 entrò in scena anche Palmiro Togliatti, spedito in Italia da Stalin. Fu questo vertice a stabilire quel che doveva accadere dopo la Liberazione: una seconda guerra civile per fare dell’Italia uno stato satellite dell’Unione sovietica. Dove i bambini com’ero io sarebbero passati da balilla neri a balilla rossi".

"  Quel golpe non venne attuato per un ripensamento di Stalin. Ma molti partigiani comunisti continuarono a lavorarci. Ce lo dicono i depositi di armi scovati  dai carabinieri sino al 1948. E l’alto numero di militanti rossi arrestati o costretti a fuggire in Jugoslavia. Molti di loro finirono sotto le unghie del maresciallo Tito, in rotta con Mosca. E sperimentarono la durezza spietata dei gulag jugoslavi, a cominciare dall’inferno dell’Isola Calva".

"  Se ci siamo salvati da un finale autoritario, lo dobbiamo non soltanto alla presenza degli eserciti alleati e ai loro tanti soldati caduti. Esiste anche un politico italiano che è d’obbligo ringraziare: Alcide De Gasperi, il leader democristiano che con la vittoria del 18 aprile 1948 ci garantì un futuro democratico".

Davvero si può affermare, con Pansa, che "La democrazia nasce il 18 aprile del '48 quando De Gasperi sconfisse i comunisti".

Per presentare ai nostri giovani la ferocia del regime sovietico al quale il PCI di Togliatti voleva asservire il nostro paese richiamiamo alla memoria la spaventosa strage di Katyn, compiuta dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale.
A questo fine proponiamo un documento straordinario:

che è stato a livello mondiale uno dei massimi studiosi del sistema sovietico.

Le sue parole meritano di essere ascoltate con grande attenzione, dalla prima all' ultima.
L' anticomunismo e l' antitotalitarismo democratici e liberali rappresentano il terreno in cui affonda le proprie radici ideali il Popolo della Libertà. La loro storia dovrebbe essere ben conosciuta dai liberali e dai moderati italiani dei nostri giorni. Un grande passato dal quale bisogna trarre sempre ispirazione.  




lunedì 18 aprile 2011

PoesiaFestival.

Anche  nei comuni dell' Unione Terre di Castelli polemiche sulla riduzione dei finanziamenti alla "cultura". Il coordinatore territoriale del PD Luca Gozzoli attribuisce agli amministratori di Savignano sul Panaro l' intenzione di abbandonare il PoesiaFestival . Questi dichiarano di volere soltanto ridurre il finanziamento.
Ci pare resti fuori la questione fondamentale. Sono scelte di politica culturale ragionevoli, adeguate alle esigenze del territorio?  O piuttosto siamo di fonte al solito tentativo della sinistra di coltivare e soddisfare le proprie clientele?
Poichè gli esempi concreti giovano più di tante parole, rimanendo in zona, da ogni punto di vista, vi mostriamo due video che non hanno davvero bisogno di  commenti.
La stagione 2010/11 del Teatro Comunale di Modena comprendeva la rappresentazione del Giulio Cesare di Handel, con buoni interpreti e la regia di Alessio Pizzech.
L' opera è stata rappresentata una decina di giorni fa. Applausi per gli interpreti. Qualche contestazione per la regia, presentata così da Pizzech stesso:




Apprendiamo che Alessio Pizzech partecipa alla Resistenza. Ma ci restano almeno due assillanti dubbi. La cultura che cita è ellenica o ellenistica? Nasce dall' Impero romano o era già nata da un pezzo? Mah!
Dove vanno i soldi per la cultura? Se proprio si devono fare polemiche, meglio rispondere a questa domanda.